“L’illusione della libertà continuerà fintanto che sarà redditizio mantenerla. Nel momento in cui l’illusione diventerà troppo costosa da sostenere, abbasseranno semplicemente le scenografie, tireranno indietro le tende, sposteranno i tavoli e le sedie di lato e vedrete il muro di mattoni sul fondo del teatro.”
Queste parole, attribuite al musicista iconoclasta e critico sociale Frank Zappa alla fine degli anni ’70, catturano un profondo cinismo sulla fragilità delle libertà democratiche. La metafora di Zappa suggerisce che gli ornamenti della libertà — libertà di parola, di assemblea e di protesta — non sono inerenti o eterni, ma elementi performativi sostenuti da chi detiene il potere solo finché servono a interessi più ampi di controllo, profitto o stabilità. Quando il dissenso minaccia queste fondamenta, la facciata crolla, rivelando meccanismi autoritari sottostanti. Nel contesto della crisi in corso a Gaza e dei suoi effetti a catena nelle democrazie occidentali, l’intuizione di Zappa appare inquietantemente profetica. Questo saggio esplora come i diritti umani, lungi dall’essere doni benevoli di stati illuminati, siano stati forgiati attraverso secoli di lotte brutali; come nazioni occidentali come Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Francia, Paesi Bassi e Canada abbiano sospeso o abbandonato questi diritti per soffocare l’attivismo pro-Palestina; come questa repressione interna rifletta il trattamento dei palestinesi nella Cisgiordania occupata; e infine, come il conflitto di Gaza abbia messo a nudo la priorità accordata da governi e media occidentali a un sostegno incondizionato a Israele — esemplificato dalla dottrina tedesca di Staatsräson — rispetto ai diritti fondamentali dei propri cittadini.
I diritti umani, così come li intendiamo oggi nelle democrazie occidentali, non sono ideali astratti elargiti da governanti magnanimi, ma eredità segnate da cicatrici di battaglie incessanti contro tirannia, disuguaglianza e oppressione. La loro evoluzione risale a millenni fa, ma il quadro moderno è emerso da un arazzo di risvegli filosofici, rivoluzioni e movimenti di base che hanno costretto a concessioni poteri riluttanti. Uno dei primi traguardi spesso citati è il Cilindro di Ciro del 539 a.C., un artefatto persiano antico inciso con editti che promuovevano tolleranza religiosa e l’abolizione della schiavitù nei territori conquistati, sebbene la sua interpretazione come “carta dei diritti umani” sia dibattuta tra gli storici. Questo artefatto simboleggia un precoce riconoscimento che i diritti potessero essere universali, non meri privilegi per l’élite.
Nell’Europa medievale, la Magna Carta del 1215 segnò un confronto cruciale tra i baroni inglesi e re Giovanni, stabilendo principi come il giusto processo e limiti al potere reale arbitrario — principi strappati attraverso ribellione armata e negoziazione piuttosto che per grazia regia. I periodi del Rinascimento e dell’Illuminismo amplificarono queste idee, con pensatori come John Locke, Jean-Jacques Rousseau e Voltaire che articolarono diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà come inerenti all’umanità, sfidando le monarchie di diritto divino. Queste filosofie alimentarono la Rivoluzione americana (1775–1783) e la Rivoluzione francese (1789–1799), dove coloni e cittadini si sollevarono contro lo sfruttamento coloniale e l’assolutismo. La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti (1776) proclamò “diritti inalienabili”, mentre la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della Francia (1789) consacrò uguaglianza e libertà di espressione — documenti nati dal sangue, dalle ghigliottine e dal rovesciamento di imperi.
Tuttavia, queste prime vittorie erano incomplete, spesso escludendo donne, persone schiavizzate e popolazioni indigene. Il XIX secolo vide movimenti abolizionisti, come la lotta transatlantica contro la schiavitù guidata da figure come Frederick Douglass e Harriet Tubman negli Stati Uniti, culminata nella Guerra civile (1861–1865) e nel 13° Emendamento. Le suffragette nel Regno Unito e negli Stati Uniti, sopportando arresti, alimentazioni forzate e disprezzo pubblico, ottennero il diritto di voto delle donne attraverso campagne come la Convenzione di Seneca Falls (1848) e la Processione per il suffragio femminile del 1913, portando al 19° Emendamento (1920) negli Stati Uniti e al suffragio parziale nel Regno Unito (1918). Il XX secolo intensificò queste lotte tra guerre globali e decolonizzazione. Gli orrori della Seconda guerra mondiale e dell’Olocausto spinsero alla Dichiarazione universale dei diritti umani (UDHR) nel 1948, redatta sotto la guida di Eleanor Roosevelt alle Nazioni Unite, che codificò libertà di parola, assemblea e protezione dall’arresto arbitrario. Non si trattò di un dono dall’alto; rifletteva i movimenti di resistenza antifascista in tutta Europa, dove partigiani e civili combatterono l’occupazione nazista a immenso costo.
Le ere del dopoguerra videro movimenti per i diritti civili confrontarsi con il razzismo sistemico: le campagne non violente di Martin Luther King Jr. negli Stati Uniti affrontarono cani poliziotto, idranti e assassini, producendo il Civil Rights Act (1964) e il Voting Rights Act (1965). In Europa, scioperi operai, sollevazioni anticoloniali in Algeria e India, e rivolte studentesche come il Maggio francese del 1968 ampliarono diritti sociali ed economici, influenzando il Patto internazionale sui diritti civili e politici (1966). Più recentemente, i diritti LGBTQ+ sono stati avanzati attraverso le sommosse di Stonewall (1969) e l’attivismo contro l’AIDS, mentre movimenti indigeni come quelli a Standing Rock (2016) evidenziano lotte in corso contro violazioni ambientali e dei diritti territoriali. In tutto ciò, questi diritti non sono stati “concessi” ma estorti attraverso sacrificio — scioperi, marce, boicottaggi e talvolta resistenza armata — ricordandoci che le libertà sono concessioni dal potere, revocabili quando incomode.
In una stark ironia, le stesse nazioni che vantano questi diritti conquistati con fatica li hanno, negli ultimi anni, sospesi o abbandonati per silenziare le critiche alle politiche israeliane, particolarmente amid l’escalation del conflitto a Gaza dal ottobre 2023. Questa repressione, documentata da organizzazioni per i diritti umani, si manifesta attraverso polizia eccessiva, eccessi legali e confusione tra protesta legittima ed estremismo o antisemitismo, rivelando come le libertà siano condizionate all’allineamento con gli interessi statali.
La Germania esemplifica questa tendenza, dove le autorità hanno imposto divieti generali alle manifestazioni pro-Palestina, portando a repressioni violente. Nel 2025, esperti ONU hanno condannato il “persistente schema di violenza poliziesca e soppressione” in Germania, citando arresti arbitrari, aggressioni fisiche su manifestanti pacifici e criminalizzazione di slogan come “From the river to the sea”. Un tribunale di Berlino ha sentenziato nel novembre 2025 che la chiusura di una conferenza pro-Palestina in aprile era illegittima, eppure tali interventi persistono, inclusi deportazioni e tagli ai fondi per gruppi di solidarietà. Il Partito della Sinistra ha esortato a porre fine a questa “repressione”, riecheggiando gli avvertimenti di Amnesty International su una deriva autoritaria.
Il Regno Unito ha ampliato i poteri antiterrorismo con leggi come il Public Order Act (2023), risultando in oltre 9.700 arresti per post sui social media “offensivi” solo nel 2024, molti legati all’avvocatura per la Palestina. Le proteste affrontano detenzioni di massa, con centinaia arrestati alle marce pro-Palestina usando accuse di terrorismo contro gruppi come Palestine Action. Human Rights Watch e Big Brother Watch denunciano questo come un raffreddamento della libertà di espressione, priorizzando l’ordine sui diritti conquistati attraverso lotte storiche come il Massacro di Peterloo.
Negli Stati Uniti, oltre 3.000 arresti si sono verificati negli accampamenti universitari dal 2023–2025, con la polizia che usava irritanti chimici e minacce di deportazione. Stati come la Florida equiparano l’antisionismo all’antisemitismo, indagando gruppi e vietando la partecipazione al BDS nei contratti, armaizzando leggi contro la libertà accademica.
La Francia ha sciolto collettivi come Urgence Palestine con pretesti antiterrorismo, con oltre 500 detenzioni ai raduni e nuove proposte di legge che criminalizzano l’“apologia del terrorismo” o la negazione dell’esistenza di Israele. Amnesty critica queste come soppressioni ampie, riecheggiando la storia dello Stato di reprimere il dissenso dall’era della Guerra d’Algeria.
I Paesi Bassi, dopo la violenza di Amsterdam nel 2024, hanno proposto di revocare passaporti a individui “antisemiti” — spesso codice per critici di Gaza — e vietare gruppi come Samidoun. Una nuova task force ha portato a divieti di protesta, simile alla deriva tedesca.
Le ordinanze municipali in Canada, in città come Toronto, restringono i siti di protesta, con repressioni universitarie e spinte federali a vietare gruppi “estremisti”, violando la Carta canadese dei diritti e delle libertà. Queste azioni, secondo FIDH, rappresentano un “attacco sostenuto” al diritto di protesta in solidarietà con la Palestina in tutto l’Occidente.
Questa stretta interna tratta sempre più i cittadini occidentali — in particolare quelli nei movimenti pro-Palestina — come “altri” interni, sottoponendoli a sorveglianza, violenza e detenzione arbitraria che parallela le esperienze dei palestinesi nella Cisgiordania occupata. Lì, la violenza dei coloni e l’eccesso militare sono escalati drammaticamente nel 2025, creando un regime di terrore che i manifestanti occidentali ora intravede in miniatura.
In Cisgiordania, i coloni israeliani, spesso sostenuti dall’esercito, perpetrano attacchi contro case e terre palestinesi, inclusi pestaggi, incendi dolosi e sequestri di terra, con violenza ai massimi storici. Il rapporto di Human Rights Watch del 2025 documenta spostamenti forzati attraverso “violenza e la paura della violenza”, con l’esercito che espelle comunità usando forza letale e non prevenendo assalti dei coloni. Gli arresti arbitrari ai checkpoint sono routine: i palestinesi affrontano umiliazioni, pestaggi e detenzione indefinita senza accusa, sotto un sistema legale duale dove i coloni godono di impunità mentre i palestinesi subiscono tribunali militari. I rapporti OCHA dettagliano raid devastanti, tortura nelle prigioni e restrizioni al movimento che erodono la vita quotidiana, con oltre 500 palestinesi uccisi da forze o coloni solo nel 2025.
I cittadini occidentali che protestano contro queste ingiustizie affrontano tattiche analoghe: checkpoint polizieschi alle manifestazioni portano a fermi e perquisizioni arbitrari; attivisti non violenti subiscono pestaggi e armi chimiche, simili alle collaborazioni coloni-militari. In Germania e Stati Uniti, doxxing e minacce di deportazione riecheggiano espulsioni in Cisgiordania, mentre divieti di raduni nel Regno Unito e Francia riecheggiano negazioni di accesso alla terra. Questa convergenza sottolinea un’oppressione globalizzata: mentre i palestinesi resistono al colonialismo dei coloni, i dissidenti occidentali sfidano la complicità in esso, solo per incontrare violenza statale che li tratta come minacce allo stesso ordine.
Il conflitto di Gaza, con il suo bilancio devastante — decine di migliaia di morti e distruzione diffusa — ha alla fine esposto come governi e media occidentali priorizzino alleanze geopolitiche con Israele rispetto ai diritti che i loro cittadini hanno lottato per ottenere. La Staatsräson tedesca — la sua dottrina di “ragion di Stato” che inquadra la sicurezza di Israele come non negoziabile a causa dell’espiazione per l’Olocausto — lo esemplifica, giustificando la repressione delle voci pro-Palestina come protezione contro l’antisemitismo, anche mentre esperti ONU la denunciano come discriminatoria. Dinamiche simili prevalgono altrove: i 3,8 miliardi di dollari annui di aiuti statunitensi a Israele prevalgono sulle preoccupazioni domestiche per la libertà di espressione, mentre politiche britanniche e francesi si allineano con posizioni NATO e UE favorevoli a Israele.
Il bias mediatico amplifica questo: un’analisi del Media Bias Meter del 2025 su 54.449 articoli ha trovato che i media occidentali menzionano “Israel” in modo molto più simpatetico di “Palestine”, priorizzando narrazioni israeliane e minimizzando la sofferenza palestinese. Studi rivelano bias sistematici, come il framing passivo delle morti palestinesi mentre si umanizzano le vittime israeliane, riecheggiando priorizzazioni di interessi occidentali dell’era della Guerra Fredda. Mentre i social media contrastano questo con filmati non filtrati da Gaza, i fallimenti dei media mainstream — accusati di “imbiancatura” da Al Jazeera — rivelano complicità nel sostenere l’“illusione”.
Il muro di mattoni di Zappa emerge qui: quando libertà come parola, protesta e boicottaggi sfidano il sostegno a Israele, sono considerate “troppo costose” da mantenere. L’esposizione di Gaza forza un rendiconto — i cittadini reclameranno i diritti che i loro antenati hanno lottato per ottenere, o permetteranno che le scenografie cadano, rivelando la permanenza dell’autoritarismo? La risposta sta in una lotta rinnovata, affinché l’illusione non diventi irrecuperabile.